Come tutte le arti e le scienze al mondo, le arti marziali hanno in sé un doppio spirito: uno tradizionalista, che tende a codificare e regolamentare gli stili; ed uno progressista, che cerca nuove sfide e nuove suggestioni per evolvere e mettersi alla prova. E in fondo, tutte le arti marziali tradizionali come noi le conosciamo sono frutto di incroci e sperimentazioni, di nuovi stili che sono nati e vecchi stili che si sono estinti.
Fino alla fine dell’ottocento, le arti marziali più classiche avevano preso una via precisa verso la ritualizzazione, divenendo più un elemento da substrato culturale che altro. Le arti giapponesi servivano più che altro per disciplinare lo spirito grazie ai dojo; in Cina e in Corea i vari stili erano lasciati soprattutto ai monaci o a maestri erranti; in Thailandia gli incontri, sebbene cruenti, erano rituali (con tutti gli amuleti del caso); in India le arti belliche si erano trasformate in una sorta di danza. All’inizio del novecento l’Oriente cominciò a entrare in rapporti sempre più stretti con l’Occidente, un Occidente meno abituato ai riti, alla spiritualità e più concentrato sulla mera efficacia pragmatica e ciò diede il via ad un’evoluzione delle arti marziali verso il polo opposto: in Giappone cominciavano a nascere tornei a contatto pieno dove i combattenti di varie discipline potevano confrontarsi (poi evolutisi fino allo Shooto); in Russia il partito comunista diede incarico ai reparti specializzati dell’Armata Rossa di studiare tutte le arti marziali per testarne l’effettiva efficacia; e infine in Brasile cominciarono i primi tornei di Vale Tudo.
In questi prime forme rudimentali di confronto, il lato ritualizzato delle arti marziali era completamente scomparso e a malapena ne esisteva uno sportivo, visto che i primi formati dei tornei (talvolta clandestini) avevano dei regolamenti che rasentavano l’illegalità. Dopo l’esplosione delle arti marziali nella cultura occidentale grazie alla cinematografia cinese e a Bruce Lee (che col jeet kune do diede inizio alla filosofia dell’integrazione tra arti marziali), un ulteriore passo avanti avvenne quando gli Stati Uniti si aprirono verso l’esperienza brasiliana della famiglia Gracie, trasformandola in una vera e propria competizione sportiva. Avvenne così che tra gli anni ’80 e ’90 nacquero i primi incontri di UFC.
Nel Vale Tudo, nello Shooto e nei primi tornei UFC, si scontravano combattenti esperti perlopiù in un’unica arte marziale, e tra questi tendevano ad avere la meglio i grappler, soprattutto jiu-jitsu braziliano (Royce Gracie), luta livre (Marco Ruas) e sambo (Emilianenko Fedor, Oleg Taktarov): era evidente l’impreparazione degli esperti di arti marziali specializzate nelle percussioni di fronte alle tecniche di sottomissione e di lotta a terra. Ciò ha aperto la strada ai wrestler di scuola americana (Mark Coleman, Frank Shamrock, Tito Ortiz, Matt Hughes), capaci di prevenire gli atterramenti e di percuotere da posizioni di vantaggio (ground and pound) grazie allo strapotere fisico dovuto alla preparazione sportiva di livello professionale. Nella generazione successiva fu il turno degli striker (Vanderlei Silva, Anderson Silva, Chuck Liddell, Crocop) che, fatto tesoro delle esperienze dei primi tornei, cominciarono ad allenarsi specificamente per prevenire gli atterramenti e per sviluppare un atletismo di solito non ricercato nelle arti marziali tradizionali. In questo modo, imparando a gestire la distanza e ad evitare la fase di lotta a terra (sprawl and brawl), furono gli striker a dominare portando in auge muay thai, kickboxing e taekwondo.
Degni di nota anche vari combattenti specializzati nel clinching (Daniel Cormier, Randy Couture, Cain Velasquez) per far valere la loro forza bruta e per neutralizzare sia lo striking che il grappling avversario chiudendo la distanza e basandosi su pugni stretti, ginocchiate, gomitate e atterramenti. Generalmente provengono dalla lotta greco-romana o dalla lotta libera.
Parallelamente all’evoluzione delle strategie si è prodotta un’altra evoluzione fondamentale, quella che ha spinto inizialmente tutti gli atleti a passare dallo studio di un’arte marziale al cross-training, cioè allo studio comparato di disparate discipline per poter competere nelle tre fasi di combattimento (striking, clinching, grappling) e, in seconda battuta, a sintetizzare organicamente le varie arti cominciando ad allenarsi direttamente nel formato MMA (non più quindi nelle singole arti marziali) senza separare troppo artificialmente le fasi di combattimento ed evitando alcune caratteristiche delle singole discipline che nelle MMA sono controproducenti.
È così che un attuale praticante di MMA è al contempo uno studioso di numerose arti marziali di accertata efficacia e un atleta che cura le proprie prestazioni sportive ad alto livello; è in questo senso che le arti marziali tradizionali hanno perso terreno sulla strada dell’efficacia. Va da sé che questa esasperazione dell’efficacia e della competizione ha allontanato gli atleti dal lato interiore delle arti marziali, ovvero dalla spiritualità, dalla ricerca degli equilibri interiori, dallo studio delle energie e degli stati di coscienza. Probabilmente, reintegrare nuovamente questo aspetto sarà il prossimo passo dell’evoluzione delle arti marziali.
Giacomo Colomba